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La prima "impantanata" di successo

Eleonora Leonardi

Eleonora Leonardi

Il primo passo dentro la fanghiglia appiccicosa che, negli anni a venire, sarebbe stato il mio pantano, l’ho compiuto quando è arrivato il momento di scegliere l’università

Vivevo in una cittadina un po’ fuori dal mondo, dove praticamente non esistevano aziende, e le uniche professioni che conoscevo da vicino erano quella dell’avvocato (svolta da 1 padre, 2 zie e 1 nonno) e quella dello psicologo (svolta da mia madre).

Io ero cresciuta divorando i libri e testi di studio di mia madre e allenando (a volte mio malgrado) una particolarmente spiccata capacità di ascolto. Perciò non avevo dubbi: Psicologia tutta la vita.

Eppure, arrivata alla fine del Liceo Classico, cominciai a sentirmi piena di insicurezze. Sì, mi appassionava. Sì, pensavo di essere portata. Ma c’erano un sacco di altre cose che mi piacevano, e altre per cui ero portata… come facevo a scegliere una strada?

Smarrita nel delirio delle possibilità (ormai c’era internet da un pezzo e non ci voleva molto, per un’adolescente curiosa, per ritrovarsi a pensare che almeno 127 lavori potevano essere adatti a lei) cambiai idea un certo numero di volte.

Alla fine trovai quella che, mi pareva, era la quadra perfetta: avrei studiato Economia Aziendale, che (a detta di internet) era una delle facoltà con più sbocchi professionali possibili.

Così mi ritrovai su una strada tutta diversa da quella che avevo sempre immaginato

L’inizio andò benone. Era tutto nuovo, era tutto bello, e alcune materie mi appassionavano e divertivano molto. Specialmente quelle in cui c’era da capire, sviscerare, risolvere. Certo, altre mi facevano chiedere come diavolo mi fosse venuto in mente di scegliere una facoltà del genere, ma poi incappavo in una materia che aveva a che fare con le persone o con il modo in cui le persone si organizzano per far funzionare un’azienda, ed era come una boccata d’ossigeno.

Comunque andavo bene, ero brava, avevo una bella media e quindi, evidentemente, avevo fatto la scelta giusta.

Verso la fine dell’Università, però, l’ansia cominciò a salire. A conti fatti, le materie che mi avevano appassionato erano in netta minoranza rispetto a quelle che mi avevano fatto chiedere “ma perché dovrei volermi occupare di questo tutta la vita?”, per cui iniziai seriamente a preoccuparmi.

Poco prima della laurea entrai in una società di consulenza per seguire un progetto legato alla trasparenza sugli impatti sociali e ambientali delle grandi aziende

Questa opportunità (che non andai propriamente a cercare, ma che incontrai per quel mix di fortuna e capacità che sta alla base di ogni buona occasione) mi diede un po’ di quel “senso” che andavo cercando. Così restai.

Per i 10 anni successivi mi sono occupata di portare criteri di trasparenza e sostenibilità sociale e ambientale nelle strategie e nei processi di grandi aziende italiane e multinazionali.

Era un lavoro incredibilmente stimolante: aveva uno scopo, richiedeva inventiva e concretezza, senso pratico e visione, e io amavo avere l’opportunità di proporre, costruire e innovare continuamente.

Eppure… mi mancava sempre qualcosa. Come se quello che facevo fosse, sì, fantastico ed entusiasmante, ma non c’entrasse completamente con me. Come se non fosse proprio quello che avrei scelto, se fossi stata capace di scegliere.

Queste inquietudini restavano, comunque, sempre sullo sfondo. Non avevo tempo per occuparmene: la mia vita era votata esclusivamente al lavoro e non mi restavano né il tempo né le energie per stare tanto a interrogarmi. E poi, di nuovo: andavo alla grande, ero brava, tutti mi apprezzavano… evidentemente (di nuovo) avevo fatto la scelta giusta.

Già all’epoca, anche se non me ne rendevo conto, ero impantanata

Dedicavo al mio lavoro ogni goccia di energia, lasciando pochissimo spazio per tutto il resto: affetti, interessi, progetti personali, cura di me. Il che era paradossale, dato che non ero nemmeno convinta che quel lavoro fosse la mia strada per il futuro.

Il punto è che il pensiero di avere fatto la scelta sbagliata, e di avere investito male tutti quei preziosi anni e tutto quel sudore… era insopportabile. Perciò, forse, gettare tutte le mie energie nel lavoro era proprio il mio metodo per evitare di vedere il gran pantano in cui mi ero cacciata.

Poi sono successe un paio di cose a livello personale, e sono stata costretta a rivedere le mie priorità. Chiedermi se davvero valeva la pena di trascurare la mia salute o i miei affetti per un lavoro che, peraltro, non ero certa che fosse la mia “vocazione”, a quel certo punto divenne inevitabile.

Ma che cosa potevo fare di diverso? Avevo trascorso la mia vita convinta che il segreto della felicità fosse trovare il proprio talento e assicurarsi di dargli spazio. Per tanti anni avevo dato spazio (anche troppo spazio!) a un talento ma non avevo raggiunto la fantomatica felicità. Cosa volevo allora?

Trovare la risposta a questa domanda ha richiesto parecchio tempo, trascorso a vagare in un pantano fatto di dubbi, insicurezze e paura del giudizio degli altri, in cui mi era difficile sia vedere in che direzione volevo andare sia darmi il permesso di andarci.

Per uscire dal mio “impantanamento” ho dovuto imparare diverse cose

Per esempio:

  1. l’equazione “segui il tuo talento e sarai felice” vale solo se sei bravo a fare una cosa soltanto. Per riuscire a trovare l’uscita del mio pantano ho dovuto rendermi conto che è possibile essere molto bravi in più di una cosa, e che è perfettamente normale e socialmente accettabile cambiare strada (anche completamente) a un certo punto della propria carriera
  2. riesci a vedere solo le strade che ritieni possibili. Finché ero incastrata nella visione “avevo un talento, l’ho seguito, non ho raggiunto quello che volevo e adesso sono fregata” non riuscivo a vedere alternative. Per riuscire a vedere la strada che volevo intraprendere ho prima dovuto “smontare” quella convinzione, e anche molte altre (su cosa ero o non ero in grado di fare, su cosa gli altri si aspettavano da me, sul tipo di vita che volevo, ecc ecc). Solo quando ho trovato nuovi punti di vista sono riuscita a mettere a fuoco quello che volevo fare, perché solo a quel punto era diventato possibile
  3. il corpo sa tutto. Quando ero arrivata al limite dell’impantanamento era stato il mio fisico a farmelo sapere, mollando il colpo tutto d’un botto. Allo stesso modo, ho imparato che il corpo invia continuamente segnali che aiutano a capire se siamo sulla strada giusta o ci stiamo infilando in un vicolo cieco. Si tratta “solo” di imparare a riconoscerli.

Alla fine, dopo una serie di esplorazioni, tentativi, stimoli ed esperimenti, la mia strada l’ho trovata. E da quando ho cominciato a percorrerla ho scoperto la cosa più interessante di tutte: che la strada la scopri davvero solo una volta che ti sei messo in cammino.

Proprio come quando prendi un sentiero di montagna, e sai solo in che direzione devi andare e quali cartelli devi seguire. Poi il resto (le salite, le discese, le buche, gli scorci, i panorami) li scopri solo mentre vai. Ed è proprio questo il bello.

E tu? Qual è la tua storia?

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